27 novembre 2022 - La foto è stata scattata un anno fa dal letto del reparto COVID2 dell'ospedale di #Santorso di cui ricordo ogni particolare nonché la cura di ogni gesto e azione delle persone che erano lì.
È passato giusto un anno da quel 27 novembre. Era un sabato. Rivivo i momenti di paura e smarrimento di quando, sfinito, chiamai il 118. Ero in terapia farmacologica a casa da giorni ma la mia #polmonite da #COVID continuava a peggiorare. Malgrado il cortisone, l’antibiotico, la lattoferrina, la quercetina, lo zinco, la vitamina D… e malgrado due medici attenti e coraggiosi non mi facessero mai mancare il loro supporto. Non riuscivo quasi più ad alzarmi dal letto e avevo perso la fiducia nell’organismo che mi teneva al mondo, nella sua capacità di resistenza e di ripresa. Ero stato catapultato in un mondo che non conoscevo, quello della malattia grave e potenzialmente mortale. Sono stato molto male. È stata la prima volta per me in tutto. È stato difficile.
Arrivai in una stanza d’ospedale. Il corpo, che aveva respirato decenni per me senza che me accorgessi, aveva bisogno di più ossigeno. Una macchina, l’umidificatore elettronico Airvo, lo miscelava con aria calda e umida purificata, che inalavo. Servivano antibiotici, cortisonici, fluidificanti, eparina. C’erano.
Ero vissuto più di mezzo secolo senza aver mai fatto l’esperienza del ricovero. Fare quella telefonata al 118 è stato perciò lacerante. Avevo capito da giorni che qualcosa stava andando storto: malgrado la terapia, non c’era verso di abbassare la febbre, e l’ossigenazione andava sempre peggio. Ho dovuto prendere atto sulla mia pelle che in alcuni casi il SARS-COV-2, o quello che è, poteva avere effetti devastanti.
Gli operatori del #118 erano stati gentili. Mi avevano dato indicazioni su cosa portare con me e mi avevano accompagnato giù per le scale fino all’ambulanza. Mille pensieri, mille paure, quel sabato sera in quel tragitto al crepuscolo invernale verso l’ospedale. Soprattutto la paura di subire un (mal)trattamento per il fatto di non essere vaccinato. La paura di doversi affidare totalmente ad altri, e di quello che potevano decidere di fare al mio corpo. Non la paura di morire, ma quella di assistere impotente alla profanazione di quel corpo “che avevo vissuto” nel range estremo di piacere e dolore, e che mi faceva stare al mondo.
In pronto soccorso quelle paure hanno preso forma concreta e sono diventate la realtà di un sistema che ti guarda dall’alto e ti giudica e forse ti disprezza, incarnato da quel medico che mi ha chiesto espressamente:
“Non sei vaccinato? Perché non ti sei vaccinato?”
“Cosa devo dirle? Sì è schiavi della propria esperienza, della propria storia”.
E ho cominciato a chiedermi se avevo sbagliato. Forse non sarei stato lì se mi fossi vaccinato. Ma ero ancora schiavo della mia esperienza sì, e la forma plastica dell’insieme delle mie sinapsi produceva incertezze: “Non volevo arrivare qui. Serviva quel vaccino? Perché nessuno si è occupato di me? Perché non avete risposto alle mie domande? Ho questo e quello, funzionerebbe con me questo #vaccino? O mi creerà problemi e andrò avanti tutta la vita a chiedermi perché l’ho fatto? Ancora nessuno mi ha spiegato come funziona davvero. In teoria le cellule del deltoide dovrebbero accogliere le nanoparticelle lipidiche del farmaco, smontarle, liberare l’#mRNA e reagire all’istruzione producendo la famosa #spike, la proteina killer, che dovrebbe poi innescare la risposta immunitaria. Ma quale memoria conserverà il mio sistema immunitario rispetto al fatto che le mie stesse cellule hanno deciso di produrre qualcosa che è altamente tossico per il mio stesso organismo? E perché nessuno commenta lo studio sulla bio-distribuzione del governo giapponese, realizzato in collaborazione con la stessa Pfizer, da cui risulta che il processo di "delivery" sembrerebbe non andare in porto (un 50% delle nanoparticelle finirebbero intatte nelle feci e il resto si distribuirebbe, sempre intatto, in vari organi e tessuti…).
“Lei ha una polmonite bilaterale interstiziale caro…!”
Mi portarono in reparto. La polmonite da COVID finisce per coinvolgere gran parte degli alveoli che non riescono più ad ossigenare il sangue. Il sensore spettrofotometrico al dito esprimeva un numero che non doveva mai scendere sotto il 92%% e a me era sceso a volte all’85%, prima che arrivassi lì. L’umidificatore elettronico aveva portato il valore al 100%… irraggiungibile anche nella normale respirazione. Ogni giorno un’infermiera prelevava del sangue direttamente dall’arteria del mio polso. È profonda, non si vede, la si sente solo pulsare. L’ago, doloroso in profondità, a volte arrivava non proprio in asse e l’arteria si spostava lateralmente sotto la pressione. Nel dolore pareva di sentire il rumore sordo di quello scatto elastico.
Il mio corpo, indipendente un tempo, era violato da piccoli tubicini che lo tenevano in vita. Affidato a cure non mie, perché non bastavo più a me stesso, perché a quel livello di infezione i meccanismi di autodifesa erano impazziti innescando un processo autodistruttivo che andava placato.
Francesca, un’infermiera dagli occhi, prima che dalla voce, precisamante sardi, una mattina si accorse del mio sconforto. (avevo acceso Spotify e c’era un singolo per me, “Quiet sense”, con la tromba di Paolo Frusu. Così dolce… ero scoppiato a piangere). Mi guardò attraverso la mascherina e la visiera di plexiglas. Accarezzandomi le ginocchia, sorridendomi sincera, disse sicura: “Ce la farà, uscirà di qui con le sue gambe.”
È andata così.
Sono rimasto concentrato sulla respirazione giorno e notte. Il più possibile prono perché i polmoni si espandono anche posteriormente aumentando la capacità di ossigenazione. Non ho mai smesso di muovermi e fare esercizio anche in quelle difficili condizioni e sotto lo sguardo perplesso del personale che si trovava a passare. Ho mangiato tutto quello che mi portavano. Ho bevuto di continuo. Alla fine sono stato in ospedale solo nove giorni.
Tornato a casa avevo perso in tutto undici chili e dovevo recuperare la piena respirazione, le forze, e otto chilogrammi di massa muscolare svaniti in un mese di malattia. Un miraggio alla mia età, ma ci ho lavorato, con la continua consapevolezza che è cambiato tutto. Sono sopravvissuto in un’esperienza di cui devo ringraziare la schienzah che è riuscita a produrre un nuovo virus al passo coi tempi, e il Sistema che ne ha potenziato gli effetti diffondendolo capillarmente con i suoi rimedi convincenti e nondimeno contraddittori.
A un anno da quella esperienza, dopo tredici miliardi di dosi di vaccino inoculate nel mondo e quasi sette milioni di morti attribuiti alla malattia, non c’è ancora nulla di chiaro. Emergono anzi fatti inquietanti e da quello che si è visto non si sta facendo nulla per prevenire nuove catastrofi, per gratificare e premiare la dedizione e il coraggio di tanti medici e operatori sanitari e per ridurre al silenzio la pletora di cialtroni presuntuosi.
AL